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Come l’Italia fatica a dare la giusta importanza allo sviluppo delle persone in azienda

Spesso le persone in azienda sono identificate come “capitale umano” e, di fronte a questo termine, molti imprenditori e top manager si indignano. “Le persone non sono cose!” esclamano con un misto di orrore per la mancanza di rispetto, nonché di autocompiacimento per l’ostentazione dell’approccio illuminato verso la questione.

La triste realtà, soprattutto in Italia, è che se le persone fossero considerate e gestite come un qualsiasi altro capitale, si sarebbe fatto già un enorme passo in avanti nell’ambito dello sviluppo personale di chi, all’interno delle aziende, lavora e offre l’unico e vero contributo di valore distintivo al raggiungimento degli obiettivi.

Per non far pensare che certe affermazioni facciano parte di un vuoto repertorio di luoghi comuni, vale la pena di riportare qualche dato.

Già nel Summit Europeo tenutosi a Lisbona nel 2008, si sosteneva che, nelle strategie di sviluppo delle aziende, grande importanza doveva essere riconosciuta all’investimento sulle persone, considerate almeno altrettanto importanti delle risorse economiche e tecnologiche.

Ciò si è tradotto in vari obiettivi specifici, come ad esempio l’incremento delle attività formative, soprattutto la cosiddetta formazione permanente: le tre “L” del Life Long Learning.

Purtroppo, gli stati della UE sono ancora molto distanti nel livello di concretizzazione delle decisioni prese allora, rispetto a quanto viene portato avanti negli USA, sia in termini di azioni intraprese sia per quanto riguarda la tipologia di paradigmi a sostegno delle scelte aziendali sui temi della formazione.

Da alcune ricerche effettuate a livello europeo emerge che circa il 26% dei lavoratori europei fruisce, nell’arco di un anno, di almeno un intervento formativo pagato dal datore di lavoro. Questo dato, di per sé già poco confortante, diventa quasi drammatico per l’Italia, attestandosi su un misero 17%. Per trovare qualcuno che fa peggio è necessario confrontarsi con Bulgaria, Romania, Portogallo e Turchia. Nei Paesi scandinavi la percentuale sale fino al 50%, la Francia si posiziona a un 25% e in UK il dato raggiunge il 38%.

Insomma, se a parole tutti sono pronti a schierarsi a favore dello sviluppo delle persone, nei fatti si è tuttora ancorati a politiche vecchie e poco adeguate a ciò che ormai il mondo del lavoro richiede.

Da qualche decennio le aziende sono entrate nella cosiddetta “economia della conoscenza”, cioè l’economia che si basa sull’utilizzo delle informazioni per generare valore, con particolare attenzione a natura, creazione, diffusione, trasformazione, trasferimento e impiego della conoscenza in ogni sua forma.

La vecchia burocrazia, in cui una procedura blindata ed efficiente poteva garantire il raggiungimento degli obiettivi, si è ridotta oggi all’arcaico esempio di una gestione aziendale miope e destinata al fallimento.

In questa nuova realtà in cui tutti viviamo, è la persona a fare la differenza; sono l’intelligenza, la creatività, la capacità di decidere con responsabilità e tempestività che offrono le armi per scendere in campo e confrontarsi con la concorrenza; è la fiducia in se stessi e negli altri che permette di avanzare in un contesto sempre più magmatico e privo di costanti punti di riferimento; è la capacità di relazionarsi in modo efficace, attraverso una comunicazione corretta, che decide il successo di un marchio sul mercato.

Dopo queste considerazioni, è quasi naturale chiedersi come mai, in un momento storico in cui le persone fanno veramente la differenza in ogni settore di business, le aziende siano così poco disposte ad investire su questo “asset”, sempre più strategico e fondamentale.

L’impegno delle imprese più prospere e lungimiranti dovrà sempre più essere quello di continuare a costituire l’esempio e la testimonianza di una gestione attenta dello sviluppo delle persone, attraverso una formazione di qualità, coerente con il resto delle strategie aziendali.

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